Areacreativa42 è lieta di annunciare l’inaugurazione della mostra

Elvis Spadoni- LO SPAZIO DEL SACRO

sabato 17 febbraio ore 17 presso la ex Chiesa della SS. Trinità a Cuorgnè (TO).

La mostra nasce dalla collaborazione tra Areacreativa42 e la Città di Cuorgnè all’interno del progetto “Artisti in residenza a Casa Toesca” chiamati a riflettere sul tema “La presenza dell’antico nella vertigine del contemporaneo”. Elvis Spadoni realizzerà un’opera, durante il periodo mostra, nella ex chiesa ed il pubblico potrà seguirne lo stato di avanzamento ed ammirare il risultato al termine della mostra.

L’artista sarà in residenza nella sede di Areacreativa42, Casa Toesca a Rivarolo, dal 7 febbraio al 11 marzo 2018: durante questo periodo sarà possibile visitare l’atelier e partecipare ai workshop.

La mostra, curata dall’Associazione Areacreativa42 in stretto dialogo con l’artista, sarà accompagnata da laboratori rivolti agli studenti delle scuole del territorio, incentrati sulla pratica del disegno della figura umana, una pratica molto importante all’interno del lavoro di Elvis Spadoni.

 

La ricerca di una definizione in grado di delineare in modo totalizzante concetto di “sacro” è una delle grandi sfide postesi dal pensiero occidentale: ponendo in relazione implicazioni etiche, filosofiche, storiche e antropologiche tale ricerca ha impegnato alcune delle menti più illuminate del novecento. Secondo la visione sociologica del francese Emile Durkheim (1858-1917) per esempio il sacro è l’espressione trascendentale del potere della società, entità superiore che nasce dalla convergenza della volontà dei singoli, alla quale gli uomini attribuiscono connotati divini.
La prospettiva fenomenologica degli studi di Rudolf Otto (1896-1937) individua invece il sacro nel ganz andere, il “totalmente altro”: esso è al tempo stesso impercettibile dai sensi e inconcepibile dall’intelletto umano, sebbene possa essere esperito in modo irrazionale come un senso di assoluta grandezza (mysterium fascinans) e come un senso di impotenza di fronte ad una realtà infinitamente superiore ai limiti umani (mysterium tremendum); è ciò che lo studioso definisce esperienze “numinose”, le esperienze del divino, che lasciano l’uomo annichilito.
Muovendo da queste considerazioni lo studioso rumeno Mircea Eliade (1907-1986) arriva ad identificare la storia della religione, fin dagli albori dell’umanità, con la storia delle ierofanie: questo neologismo, inventato dallo stesso Eliade, indica qualsiasi luogo, oggetto, persona o animale nel quale il sacro si manifesti, connotandolo di un valore derivato proprio dal fatto di aver trasceso la natura profana e materiale assurgendo ad una nuova sfera dell’essere, quella appunto del sacro, attraverso quella che, con una calzante definizione di Durkheim, potremmo definire una “rottura di livello”.
Ciò che accomuna tutti questi percorsi cognitivi è la volontà di evadere la tentazione di definire il sacro secondo i dogmi ed i precetti di un particolare credo, tentando al contrario di unificare in un solo concetto l’insieme globale delle esperienze che legano l’Uomo con la sfera dell’ignoto.
Si tratta, infine, di provare ad individuare la natura assoluta del sacro al di fuori degli schemi culturali precostituiti, riconducendo l’esperienza culturalmente connotata della religione a quella umana ed universale del sacro.
Nelle opere in mostra il concetto di sacro convive e dialoga quello di mito, inteso come atto di fondazione della società, della cultura e dell’ordine razionale delle cose del mondo: nel mito, così come nella vicenda biblica (che del mito condivide un gran numero di elementi chiave), norme e precetti sociali trovano una propria origine e una indiscutibile legittimazione, quasi sempre proprio grazie all’autorità della manifestazione del sacro. La narrazione mitica è una trasposizione mediata dal sacro di istanze sociali, etiche e morali proprie della natura umana.

La pittura di Elvis Spadoni è in tal senso una pittura mitica; attraverso essa l’artista riflette sulla condizione umana, affrontando momenti cruciali della vita come il lutto e la maternità o ancora aspetti della fisionomia caratteriale come la vanità: la narrazione mitica e biblica si piegano alla natura di strumento veicolare per un messaggio la cui potenza comunicativa deriva dal radicamento culturale della narrazione stessa. 
La dimensione antropologica ed esperienziale delle opere di Elvis Spadoni si rafforza alla luce del fatto che le figure che le popolano altre non sono altro che ritratti dell’artista stesso e della sua famiglia: la pratica pittorica assume in questo senso anche una funzione autoanalitica, permettendo all’artista di prendere le distanze da sé stesso risemantizzando la propria immagine attraverso l’assunzione di ruoli differenti, come in un gioco delle parti nel quale egli impone a sé stesso un personaggio per potersi ridefinire attraverso una prospettiva differente. A tutti gli effetti appare legittimo parlare di “pittura riflessiva”: l’immagina dell’artista, “riflessa” nella tela, diventa essa stessa un’occasione di riflessione personale.
Questo percorso creativo diviene un’ulteriore chiave di lettura: attraverso esso l’artista sembra invitarci ad imitarlo immedesimandoci all’interno della narrazione, ponendoci in discussione, assumendo un ruolo nel quale riconoscere (o non riconoscere) una parte noi stessi, raggiungendo una consapevolezza del sé più profonda. 
Con le parole dell’artista stesso: 
I temi esposti nascono da personali scelte biografiche: per quanto riguarda Narciso, Ulisse e Davide, le storie mi sono apparse significative per le assonanze biografiche. Davide che scegliendo la fionda come arma punta la sua sfida del futuro sulle proprie povere capacità, Ulisse che compie una scelta di stabilità rispetto a un girovagare eterno e Narciso che cerca la propria identità nell’immagine riflessa, simbolo della mia pratica dell’autoritratto, sono tutte storie che ho rappresentato perché erano eco della mia vita.
Nei temi biblici al significato morale e sociale si affianca una “genuina carica religiosa”: il tentativo dell’artista di mettere l’uomo di fronte all’ipotesi di una possibilità di incontro con la sfera del divino e della presenza di una realtà trascendente all’interno della nostra vita, ponendoci di fronte ad esempi di questo incontro. Ancora una volta l’immagine di Elvis stesso nel dipinto è un utile strumento per spingerci alla compenetrazione tra i personaggi e noi stessi: identificandoci con loro accettiamo la possibilità di condividerne la rivelazione ed esperire del sacro come realtà fattuale e non come sua rappresentazione.

Nonostante l’assoluta rilevanza delle figure però il primo impatto visivo con le opere di Elvis Spadoni ci costringe al confronto con una presenza permeante la cui componente costitutiva è proprio l’assenza: lo spazio “vuoto” in queste opere assume una chiara valenza materica, permeato com’è di una luce intensa tesa a forzare i limiti sensoriali tra il visivo ed il tattile.
Questa luce è la rielaborazione formale di Elvis Spadoni della tradizionale manifestazione antropomorfa del divino, così importante nella tradizione della pittura religiosa italiana ed occidentale e proprio per questo espressione di una visione culturalmente connotata (e/o limitata). Attraverso il candore minimalista l’artista mette in luce i limiti umani nella percezione e nella comprensione del sacro, traducendo in termini visivi il mysterium del “totalmente altro” e inscenando in senso pittorico la “rottura di livello”: Spadoni sceglie la rinuncia alla forma come unica via per rappresentare l’irrappresentabile.
All’indiscutibile fascino estetico del contrasto estremo si somma quindi una componente di significato assolutamente non trascurabile. Del resto sebbene ad un confronto superficiale con l’opera saremmo tentati di relegare questo spazio luminoso al ruolo di sfondo, esso è in realtà il punto di arrivo di un percorso visivo e analitico del quale il nostro incontro con la figura non rappresenta che il primo passo. 
Lo spazio vuoto, al quale è riservato il maggior rilievo compositivo, è un luogo di silenzio formale al quale siamo ammessi per il tramite del personaggio, i cui panni abbiamo vestito per l’occasione: una possibilità di dialogo tra l’osservatore e l’opera della quale l’artista, abbandonata la pretesa di rappresentare ad ogni costo, ci fa dono. Qui ha luogo l’atto finale di un cammino attraverso il quale l’artista ci accompagna, un cammino “mistico” nella misura in cui il termine si riconduce al suo significato etimologico: “non avere le parole per raccontare”.
All’interno di questo spazio si configura un’universo possibile di risonanze espressive e semiotiche che trascendono i limiti della parola e dell’immagine per abbracciare l’intero spettro delle potenzialità del pensiero e di quelle oltre il pensiero stesso: è uno spazio altro, lo spazio del sacro.

Lo spazio del sacro non è tuttavia solo quello interno alla composizione pittorica, ma anche quello dell’arte, termine la cui definizione assoluta è sfuggente tanto quanto quella di sacro, come nei decenni passati hanno dimostrato le numerose esperienze tese a metterne in crisi lo statuto costitutivo. L’analogia con il sacro diviene quindi un’occasione per riflettere sul rapporto tra l’arte ed il mondo reale, in termini visivi spaziali ed etici.
Le opere di Elvis Spadoni coniugano in un dialogo organico tendenze figurative naturaliste e analisi informale minimalista nella declinazione monocromatica di ampie porzioni dei suoi dipinti, frutto di una ricerca tesa a riflettere sul complesso rapporto tra astrazione e figurazione che ha caratterizzato le ricerche artistiche del secolo scorso.
Quest’operazione dialettica offre un ultimo ma fondamentale spunto di riflessione che non potrebbe essere meglio espresso che con le parole dell’artista stesso:
Credo che tutta la pittura degli ultimi cento anni almeno si sia mossa spinta da un forte anelito verso il sacro inteso come quella dimensione “altra” rispetto alla quotidianità e alle cose di tutti giorni, creando immagini che fossero un mondo diverso rispetto a quello che conosciamo, a tratti inquietante e spaesante. Lo sfaldamento della figura e la sparizione della pittura tradizionale credo siano da guardare sotto quest’ottica. Io posso introdurre questi sfondi bianchi perché prima di me ci sono stati artisti che hanno legittimato questa forma di espressione […] Ma altresì credo che la figura umana, nel suo “banale” e classico realismo, sia un elemento che non vada perso perché custodisce l’idea che la rivelazione del sacro non avviene “lasciando” questo mondo ma piuttosto in una logica di compenetrazione fra l’alto e il basso. Per basso intendo la crudezza dell’oggetto e della realtà per come si presenta a noi, come un corpo rappresentato “com’è”. Per questo sono così legato ad una pittura realista: rappresenta l’accettazione della realtà quotidiana e l’aspirazione che “il sacro” si riveli non nella misura in cui lasciamo la terra per il cielo ma nel farli incontrare.

Giorgio Bena